L’Ulivo e le urne, così le vittorie nel ‘96 e nel 2006.
Sul Sole24 ore di oggi, il prof.D’Alimonte ha pubblicato un lucido e documentato articolo che rievoca, numeri ed alleanze alla mano, le vittorie elettorali dell’Ulivo nel 1996 e nel 2006.
Ne consiglio la lettura, qui di seguito, a tutti ed in particolare a chi (D’Alema, Bersani e company) rievoca strumentalmente la stagione dell’Ulivo traendone arbitrariamente motivo di critica al PD attuale ed al governo Renzi.
Di questi tempi a sinistra si evoca spesso l’Ulivo contrapponendolo al Pd di Renzi. Lo ha fatto anche D’Alema in un’intervista al Corriere della sera. Nella ricostruzione dei nostalgici sembra che l’Ulivo sia una specie di epoca d’oro del centro-sinistra. Ma è una narrativa sbagliata. Il mito dell’Ulivo si regge su un’interpretazione ambigua e largamente inesatta delle vicende del centro-sinistra. Fin dall’inizio l’Ulivo è stato un progetto dai contorni indefiniti. L’unica cosa certa è che è nato per mettere insieme sotto l’egida di Romano Prodi progressisti ex-Pci e cattolici democratici ex-Dc. Non è stato concepito come un partito, ma come il nucleo centrale di una aggregazione più ampia di tutte le forze della sinistra italiana. In pratica, Prodi con il suo Ulivo doveva svolgere a sinistra la funzione svolta a destra da Berlusconi. Entrambi sono stati dei federatori. Uno con un suo partito personale. L’altro si è affidato a un’idea. Non è mai stato chiaro se l’idea dovesse diventare un partito. L’idea però ha svolto una funzione importante. Senza l’Ulivo l’Italia non sarebbe entrata nell’Unione economica e monetaria. E senza l’Ulivo oggi non ci sarebbe il Pd. Ma quella idea, frutto di una intuizione felice, non è mai riuscita a generare un consenso maggioritario.
L’Ulivo ha vinto due volte le elezioni. Mai da solo. E sempre “per caso”. La prima volta nel 1996. Allora la coalizione di centro-sinistra comprendeva anche Rifondazione comunista. L’accordo tra il partito di Cossutta e l’Ulivo non era politico ma solo elettorale. Li legava un patto di desistenza. Quel centro-sinistra prese il 44,9% dei voti maggioritari alla Camera. Tutto il centrodestra ne raccolse il 51,3%. Nell’arena proporzionale il distacco era ancora maggiore. Prodi vinse perché i suoi rivali erano divisi. Quelle furono le elezioni in cui la Lega Nord di Bossi si era separata da Forza Italia e correva da sola. Questa è la ragione principale della vittoria dell’Ulivo. Ma non la sola. Infatti Prodi non avrebbe vinto quelle elezioni senza l’aiuto di Pino Rauti. I candidati del Movimento sociale Fiamma tricolore non ottennero alcun seggio ma ne fecero perdere molti al Polo delle libertà di Berlusconi. È così che Prodi conquistò la maggioranza assoluta dei seggi e fece il suo primo governo.
Cosa è successo dopo è cosa nota. Nell’ottobre del 1998 l’esperienza del governo dell’ Ulivo era già finita. Il centro-sinistra non resse alla prova del governo. La distanza tra le forze dell’Ulivo e Rifondazione comunista era tale che nemmeno quell’abilissimo mediatore che era Prodi riuscì a tenere insieme la coalizione che gli aveva fatto vincere le elezioni del 1996. Mastella fu il Verdini di turno che, passando da destra a sinistra con la benedizione di Cossiga, permise a D’Alema prima e ad Amato poi di governare senza Bertinotti fino alle elezioni del 2001 stravinte da Berlusconi.
Nel 2006 vinse di nuovo Prodi. Ma fu un’altra vittoria per caso. L’Ulivo c’era anche allora. Questa volta dentro all’Unione. Una coalizione acchiappatutti, composta da 14 liste alla Camera e 20 al Senato. L’Ulivo ne era solo una componente. Per di più una componente unita alla Camera e divisa al Senato dove Ds e Margherita presentarono proprie liste contro il parere di Prodi e la logica elettorale. L’Unione vinse alla Camera per 25mila voti, ma perse al Senato. A Palazzo Madama la coalizione di Prodi prese meno voti e meno seggi di quella di Berlusconi in Italia. È grazie a Tremaglia e agli errori fatti dalla Casa delle libertà nella presentazione delle liste nella circoscrizione estero che Prodi riuscì ad avere un seggio in più di Berlusconi. Un caso fortunato che gli consentì di formare il suo secondo governo con ben 12 partiti al suo interno. Fu un governo precario come il primo e meno fortunato. Non bastò l’espediente di un programma elettorale di un centinaio di pagine per tenere unita una coalizione profondamente divisa. Una coalizione assemblata per vincere, ma incapace di governare. Il Pd è nato dalle ceneri di quella esperienza fallita. E con il Pd l’idea di un partito a vocazione maggioritaria.
Anche la coalizione di centrosinistra che si è presentata alle elezioni del 2013 si richiamava alla esperienza dell’Ulivo. Ma non le è servito per vincere. Anzi, quelle elezioni sono state una prova ulteriore della incapacità della sinistra italiana di allargare la sua base di consensi. Il Pd in versione bersaniana ha subito una grave sconfitta che ha aperto la strada a un ripensamento radicale di strategia politica. Il caso non ha aiutato Bersani come invece aveva fatto due volte con Prodi. La sconfitta del 2013 non è stata solo una sconfitta elettorale. È stato un evento politico traumatico per il popolo del centro-sinistra.
Renzi è il frutto di quel trauma. Chi lo critica utilizzando strumentalmente il mito dell’Ulivo lo fa perché quel mito serve a nascondere la debolezza elettorale e le profonde divisioni che ancora oggi caratterizzano la frastagliata e litigiosa sinistra italiana. Renzi non è interessato a ripetere l’esperienza dell’Ulivo. Cerca altre strade. In questo momento storico caratterizzato dal declino di Berlusconi milioni di elettori moderati non hanno più punti di riferimento stabili. Si è creata una finestra di opportunità. Come nel 1994. Allora Occhetto si alleò con Cossutta. Il centro-sinistra conquistò due collegi a Est del Ticino e 14 in tutto il Nord. Le cose da allora non sono cambiate. Il nostro resta un paese sostanzialmente moderato. Lo abbiamo visto anche di recente con la vicenda delle unioni civili. Per vincere il Pd deve allargarsi o affidarsi al caso. Renzi preferisce la prima strategia alla seconda. Molti dentro e fuori il Pd preferiscono la seconda. D’Alema tra questi.