La mozione Renzi
Oggi nel pomeriggio ho presentato la mozione Renzi alla convenzione del mio circolo, S.Donato Centro.
Ecco il testo del mio intervento.
Cari amici e compagni,
dopo tre anni e mezzo, torniamo a votare per scegliere chi dovrà guidare il nostro partito, il Partito Democratico. Ci chiamiamo democratici perché abbiamo fatto della democrazia il metodo del nostro stare insieme. Dobbiamo esserne fieri: siamo quasi unici nel panorama nazionale, dove troviamo partiti più vicini allo stile dell’azienda padronale e della setta fideistica che a quello di una formazione democratica. Proprio la democrazia dovrebbe essere il sistema che permette a una comunità di determinare il corso della propria esistenza. Ma da alcuni anni, in Europa e nel mondo, è cresciuto il numero dei cittadini che hanno la sensazione di aver perso il controllo sul proprio destino. In alcuni casi si tratta di una preoccupazione di carattere economico, ma spesso questo sentimento d’ insicurezza e di paura va oltre, e investe la sfera della cultura, dell’identità e dello stile di vita.
È in questo contesto che si manifesta l’ascesa dei nazionalisti dell’Europa dell’est, la Brexit, l’elezione di Donald Trump ed il crescente protagonismo di Marine Le Pen in Francia e della nuova destra in Olanda, Austria e Germania. L’ingrediente che li accomuna è la promessa di restituire agli elettori il controllo sulla loro vita. E i mezzi che propongono per raggiungere quell’obiettivo hanno sempre un elemento in comune: la chiusura. Chiudere le frontiere, abolire i trattati di libero scambio, mettere dazi, costruire muri, metaforici o reali, rispetto all’esterno.
Dimostrare che le loro ricette sono velleitarie e potenzialmente catastrofiche, non basta. Bisogna prendere sul serio il loro messaggio. La nostra sfida, oggi, è dimostrare che è vero esattamente il contrario.
Di fronte a un problema, i populisti cercano subito un colpevole, ed hanno gioco facile, in tempi di crisi, cavalcando ed alimentando i sentimenti di rabbia, di risentimento, di protesta e di sfiducia verso la politica, mentre i riformisti cercano soluzioni, che devono essere concrete e realizzabili.
Il PD, che si è assunto in questi anni difficili, la responsabilità della guida del paese, deve rivendicare la fatica delle scelte democratiche, la costruzione del compromesso possibile, inteso come costruzione di soluzioni stabili in quanto condivise.
L’Unione Europea è il primo tentativo nella storia di creare un insieme sovranazionale in tempo di pace, senz’ armi e senza minacce, sulla base della libera adesione dei popoli. Nell’ultimo quarto di secolo, l’U.E. si è trasformata da una zona di libero scambio costituita da 12 nazioni, in un colosso formato oggi da 27 paesi e popolato da mezzo miliardo di persone, la maggior parte delle quali condivide un’unica moneta e un’unica frontiera.
Da molti punti di vista si tratta di un miracolo. Ma purtroppo negli ultimi anni, la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico ha ribaltato la percezione dei cittadini. Per molti europei, oggi, l’Unione è diventata il problema più che la soluzione.
A 60 anni dai Trattati di Roma è necessario un rilancio dell’Europa unita attraverso un modello con due livelli di governo distinti, uno federale con un adeguato bilancio da gestire e regole comuni, e uno rinviato alla responsabilità degli Stati.
In attesa che si giunga all’elezione diretta del Presidente della Commissione, il PD deve farsi promotore di un’iniziativa politica che rafforzi da subito la legittimazione democratica del Presidente: proponiamo che, nelle prossime elezioni europee, la scelta del candidato del PSE alla Presidenza avvenga attraverso primarie tra i cittadini dell’Unione.
Occorre dar vita ad una Schengen della difesa e occorre una politica estera europea che, grazie al contributo fondamentale dell’Italia, investa su due aree d’importanza strategica: gestione dei processi migratori e Mediterraneo. Indubbiamente il Governo italiano, sotto la guida del PD, ha fatto del tema del Mediterraneo una priorità.
Per quanto riguarda il fenomeno migratorio, dobbiamo coniugare i nostri interessi e i nostri valori. Non dobbiamo avere paura di dire che c’è bisogno d’ integrazione, che la sicurezza passa anche attraverso l’immigrazione legale. E che per queste politiche, oltre che per i rimpatri e per il controllo dei flussi attraverso accordi con i paesi di origine, c’è bisogno di risorse umane e finanziarie, anche per programmi di cooperazione internazionale che aiutino la crescita dei paesi di origine dei migranti.
Il tema della sicurezza va sganciato da quello dell’integrazione, ma non può certo essere lasciato alla destra e ai nuovi sovranisti. Il controllo del territorio non risiede solo nel dispiegamento delle forze dell’ordine, ma nella coesione sociale e nella qualità dello sviluppo urbano. Tutelare il principio di sicurezza significa tutelare i più deboli.
Nonostante le enormi risorse ed energie di cui dispone il nostro Paese, la bassa crescita economica resta uno dei nostri problemi principali.
Su questo è intervenuto il governo Renzi e sta continuando a farlo il governo Gentiloni. Lo sforzo dei mille giorni non ha soltanto prodotto un risultato economico, con il PIL che è passato da negativo a positivo, con 700 mila posti di lavoro in più grazie al JobsAct, con lo sblocco di infrastrutture ed eventi. Ma anche e soprattutto un risultato nel campo dei diritti e del sociale. Il “dopo di noi”, la legge contro il caporalato, la legge sullo spreco alimentare e quella sull’agricoltura sociale, gli investimenti nelle periferie, le unioni civili, i soldi per le marginalità e le povertà, la legge sull’autismo, la legge sulla cooperazione internazionale e quella sul Terzo settore (è in dirittura d’arrivo la legge sul biotestamento di cui è relatrice Donata Lenzi ed è all’odg quella sullo ius soli), leggi che in alcuni casi si attendevano da tanti anni e che hanno fissato in modo inequivocabile una pagina di grande importanza nella storia sociale e comunitaria del nostro Paese.
Questi sono i risultati di un governo di centrosinistra (condizionato da una maggioranza disomogenea) guidato da un giovane leader di sinistra come Matteo Renzi, con una storia ed una sensibilità politica diversa da quella di Andrea Orlando (che alla domanda provocatoria di un giornalista lo ha riconosciuto, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza e che ne ha fatto un leale e valido collaboratore di Renzi nell’esperienza di governo).
Credo quindi che sia ora di finirla con questi continui esami del sangue per verificare se Renzi sia o no di sinistra, esami fatti poi da chi non riesce ad andare oltre generici auspici , ricchi di riferimenti geometrici (allargare il campo della sinistra, allungare lo sguardo a sinistra), ma poveri di concrete indicazioni programmatiche.
Vorrei ricordare ai nostalgici della sinistra che è stato Matteo Renzi per primo a portare il PD all’interno della famiglia dei Socialisti europei, una famiglia, peraltro, nella quale oggi non c’è molta allegria: pensiamo alla crisi dei socialisti spagnoli, di quelli francesi, dei laburisti inglesi, austriaci ed olandesi. E speriamo che Martin Schulz a settembre ci porti qualche buona notizia…..
Certo, nell’impegno di Matteo Renzi non sono mancati errori e incidenti di percorso.
Renzi non è stato per il passato un leader inclusivo. Ha privilegiato l’ io sul noi. Ha peccato di un eccesso di ottimismo e d’ irruenza, nel tentativo di esortare gli italiani ad avere fiducia in se stessi. Preso da quella che definirei un’ “ansia riformatrice” generata dal famoso discorso del presidente Napolitano alle camere riunite, il 23 aprile di quattro anni fa, si è buttato a capofitto nell’impresa, ottenendo grandi risultati, come alle elezioni europee del 2014 e nell’azione di governo (attraverso le riforme), ma anche sconfitte alle elezioni amministrative e, soprattutto, al referendum costituzionale sul quale, insieme alla legge elettorale maggioritaria, aveva giocato tutto, per dare nuovo slancio e governabilità al paese, dotandolo di istituzioni più efficienti.
La sconfitta del SI’ peraltro ha trascinato il paese in una situazione paludosa, con leggi elettorali disomogenee tra camera e senato, che non sarà facile modificare, leggi d’impronta proporzionale che favoriscono (lo stiamo vedendo) la divisione e la frammentazione, e senza le innovazioni costituzionali ( come il superamento del bicameralismo paritario) che rimpiangeremo a lungo.
Ma la direzione era quella giusta e l’errore più grande sarebbe ora quello d’ invertire la marcia per tornare indietro. Il paese non può privarsi dell’ energia, della determinazione, della passione e del coraggio di Matteo Renzi. Dobbiamo andare avanti, ma insieme.
Io credo che Matteo Renzi abbia riflettutto sui propri errori e penso che il suo atteggiamento dopo il 4 dicembre sia cambiato. Anche l’avere scelto di presentarsi in ticket con Maurizio Martina, che proviene da una tradizione diversa dalla sua, ne è una conferma.
Il Partito Democratico è nato su due pilastri. Da una parte, le culture politiche sulle quali si è fondata la democrazia italiana. Dall’altra, l’idea di centrosinistra che è stata al cuore dell’esperienza dell’Ulivo.
A dieci anni dalla nascita, il Partito Democratico può finalmente diventare quel “partito nuovo” che fu immaginato dai suoi fondatori, a cominciare da Walter Veltroni e Romano Prodi, da Piero Fassino e Francesco Rutelli.
Un partito non leggero, né pesante ma “pensante”, che selezioni e formi classe dirigente. Un Partito che rafforzi il protagonismo delle donne e dei giovani nei gruppi dirigenti a ogni livello. Un Partito costruito sui valori della partecipazione e della contendibilità.
Un grande Partito non può che essere plurale. Siamo convinti che le differenze, le sensibilità culturali siano una ricchezza per il PD e che ci si possa dare delle regole e degli strumenti per governare anche i conflitti. Le esperienze delle primarie di questi dieci anni hanno dimostrato la straordinaria potenzialità di questo strumento ma anche i suoi limiti. Ridare centralità al territorio verso la società significa anche avere dal livello di direzione nazionale una rinnovata attenzione alle modalità di regolazione dei rapporti tra maggioranza e minoranze per tutelare l’identità e l’unità del Partito.
Proponiamo di tenere entro la fine del 2017 una Conferenza Nazionale sul Partito sotto forma di sessione straordinaria della prossima Assemblea nazionale del PD – allargata ai segretari di circolo – allo scopo di assumere le scelte utili a realizzare le innovazioni necessarie, per ridare protagonismo ai circoli e ai modi di stare insieme della nostra comunità.
In virtù di questa idea di Partito, analogamente a quanto accade in tutte le democrazie parlamentari, crediamo che la leadership che si propone per il Governo del Paese debba essere la stessa che guida il Partito (come accaduto di recente in Germania con la designazione di Schulz ).
Al momento, le regole con cui voteremo non sono ancora chiare, però ci preme sin d’ora affermare due punti. Primo: il PD non deve rassegnarsi al piano inclinato che, dopo l’esito del referendum, spinge verso la democrazia consociativa, quella per cui si decide tutto dopo il voto in una stanza dove si riuniscono i segretari di partiti grandi e piccoli. Per questo motivo, il PD deve fare tutto il possibile per introdurre correttivi maggioritari alla legge elettorale, ispirandosi ai principi dell’Italicum e del Mattarellum. Secondo: per noi prima delle regole viene la coerenza programmatica con la linea che emergerà dalle primarie del PD. Chi parla di coalizioni elettorali prima di parlare di alleanze sociali, inverte – sbagliando – l’ordine dei fattori.
Desidero qui fare cenno alla recente scissione ed alla fuoriuscita di una serie di dirigenti dal PD: prima Civati, poi Fassina e D’Attorre, infine Bersani, D’Alema, Speranza. Proprio quest’ ultima è stata la più dolorosa e, lasciatemelo dire, la più pretestuosa ed anche odiosa, perchè avvenuta dopo la sconfitta di Renzi (approfittando della sua debolezza) e del PD, una sconfitta peraltro favorita da chi, dall’interno del PD, aveva promosso attivamente il No. Tra l’altro ricordo che Bersani non molto tempo fa sottolineava il suo attaccamento alla “ditta” dicendo che nessuno avrebbe potuto cacciarlo dal PD (infatti se ne è andato lui, a differenza di chi, pur in dissenso da Renzi, ha fatto la scelta giusta di rimanere nel partito dando battaglia in modo democratico al congresso: voglio darne atto a Cuperlo, Orlando e De Maria). D’altra parte i sondaggi dei giorni scorsi confermano che dopo Renzi c’è Grillo o Salvini e non più sinistra, con buona pace di stravaganti ed improbabili convergenze tra Bersani e Grillo e di patenti di centralità democratica rilasciate al M5S. Per queste ragioni credo che nei confronti di chi ha abbandonato il PD indebolendo la sinistra (abituata purtroppo a farsi del male con frequenti scissioni e divisioni) il giudizio negativo debba essere netto, senza equivoci ammiccamenti.
Per finire vorrei brevemente ricordare le proposte emerse dall‘incontro del Lingotto il 10-12 marzo, dove ha preso forma la proposta di Matteo Renzi per il Congresso. Quello stesso Lingotto nel quale, il 27 giugno di 10 anni fa, dando avvio alla sua campagna per l’elezione a Segretario Nazionale, Veltroni provò a trasmettere i riferimenti ideali, le linee programmatiche e la visione del Paese. Tornare al Lingotto, per un bilancio e un rilancio del progetto per l’Italia dei democratici, è stato dunque, da parte di Renzi, un gesto simbolicamente impegnativo.
In sintonia con tutto ciò, la mozione Renzi contiene proposte articolate su tre assi.
Prendersi cura della persona.
Prendersi cura della persona significa innanzitutto proteggere gli individui e le famiglie dalle conseguenze negative della sorte avversa.
Bisogna continuare con il lavoro svolto negli ultimi tre anni di governo, rafforzando e completando le misure assunte e introducendo nuove politiche pubbliche alla luce di tre sfide da affrontare: il bisogno e la povertà, la sfida demografica, il cambiamento tecnologico e del lavoro. Questo richiede politiche contro la povertà, per l’occupazione femminile, per la famiglia, per la non autosufficienza, per la salute.
Prendersi cura della persona vuole anche dire favorirne l’attivazione lavorativa. Non si possono ridurre i problemi lavorativi a una questione di reddito o, peggio, a una logica puramente assistenzialistica. Il lavoro non è tutto, resta una parte importante del processo attraverso il quale le persone si confrontano con i propri desideri e ricercano un’affermazione sociale e individuale (lavoro di cittadinanza).
Anche le pensioni devono adattarsi al mondo che cambia. Il sistema previdenziale e pensionistico non è solo uno degli elementi centrali del welfare, ma è anche e soprattutto un grande fattore di solidarietà tra le generazioni.
Ci sono almeno tre aspetti che dobbiamo cambiare nel nostro sistema fiscale per poterne fare una concreta molla di sviluppo. Il primo è renderlo ancor più favorevole al lavoro, sostenendo con una efficace riduzione delle tasse chi vive grazie ad esso. Il secondo è strutturarlo in maniera più equa, sostenendo innanzi tutto chi avrà la principale responsabilità del cambiamento: i giovani e le donne. Il terzo è come possiamo renderlo più giusto nella sua ordinaria amministrazione verso il contribuente e più efficace nel raggiungere un’economia spesso senza territorio.
Prendersi cura della persona vuol dire anche favorire giustizia, legalità e diritti. Parole chiave nella nostra sfida di cambiamento del Paese. Dobbiamo, però, ripartire dalla consapevolezza dell’importante cammino già compiuto in questi tre anni, con risultati di indubbia portata storica.
Prendersi cura del territorio.
Abbiamo un territorio bellissimo ma fragile: pensiamo alle aree del centro Italia colpite dal recente sisma. La ricostruzione passa per uno sforzo non esclusivamente economico, ma anche emotivo e istituzionale che coinvolge tutto il Paese; riguarda l’idea di solidarietà, di comunità e di sviluppo che sapremo costruire. Un progetto di cura del territorio che tenga insieme le città e i piccoli Comuni. Dobbiamo investire con forza sulla prevenzione del dissesto idrogeologico, sulla messa in sicurezza sismica e sulla riqualificazione energetica degli edifici esistenti, sulla riduzione del consumo di suolo e sulla bonifica di quello inquinato.
In questi anni abbiamo lavorato per valorizzare, come mai in passato, il ruolo centrale dell’agricoltura nella produzione di beni comuni, nella tutela del paesaggio, nella promozione della nostra distintività. Dovremo rafforzare l’impegno nella tutela del reddito degli agricoltori, nella salvaguardia del suolo, favorendo la crescita di un settore strategico sotto il profi lo economico, ambientale e sociale.
Prendersi cura del futuro.
Cura del futuro significa avere la priorità della crescita economica nell’azione di governo, perché la crescita non ha a che fare solo con economia e beni materiali ma anche con la voglia di vivere, con progetti individuali e collettivi che si realizzano, con lo sguardo fiducioso nel domani.Va proseguita, rafforzando la capacità amministrativa del centro e delle periferie, la politica di sostegno alla innovazione e alla crescita dimensionale delle imprese già avviata, soprattutto al Sud.
Cura del futuro è l’intreccio virtuoso tra ricerca e industria.
Le politiche per il capitale umano, in particolare quelle per la scuola, hanno una caratteristica forse unica. Si caratterizzano infatti come trasversali a tutti gli ambiti di cura che vogliamo mettere al centro della nostra proposta politica.
Per prendersi cura del futuro non c’è modo migliore che continuare a investire di più e meglio sulla scuola, sull’università e sulla ricerca.
Questi anni di governo del PD hanno visto uno scatto e un’inversione di tendenza sulla cultura, riconosciuta persino dai peggiori detrattori. Si tratta di un’inversione non solo dal punto di vista delle risorse destinate che sono tornate a crescere dopo i tagli del passato ma dal punto di vista dell’attenzione, della centralità, nel discorso pubblico. Di una nuova consapevolezza.
La rivoluzione digitale è una grande occasione e l’accesso a Internet ad alta velocità deve far parte dei servizi pubblici universali. Ma non basta: è la cultura del digitale, del cambiamento che il digitale porta con sé, che deve essere sviluppata, puntando sulla diffusione delle competenze digitali nelle scuole, sin dal primo ciclo, e in tutti gli organismi della Pubblica Amministrazione.
È su queste basi che chiediamo per Matteo Renzi e Maurizio Martina un mandato per cambiare l’Italia e l’Europa, per costruire un partito “pensante” che contribuisca a questo scopo, con un leader che si candida a guidare dapprima la nostra comunità politica e poi il governo del Paese. Avanti, insieme.