Qualche riflessione in tema di violenza sulle donne

Questo post è stato scritto da Paolo Natali il 3 aprile, 2021

Femminicidi

Si tratta di un fenomeno purtroppo ricorrente, che sembra non conoscere sosta e che troppo spesso ha come esito il femminicidio.

Da parte di associazioni femministe si chiede agli uomini di prendere posizione senza ambiguità di fronte a tale situazione, oltre che, ovviamente, di prendere personalmente le distanze da ogni comportamento violento nei confronti delle donne.

Devo dire che quando leggo questi appelli, caratterizzati in genere (con qualche giustificazione) da un tono di rimprovero e di accusa nei confronti del mio genere, reagisco condividendo (come non farlo?) le ragioni che ispirano le promotrici e aderendo di buon grado (costa poca fatica) ad unirmi ai maschi solidali con le vittime. A ciò si accompagna anche un rapido esame di coscienza che si conclude regolarmente con un’ autoassoluzione: certamente non mi sognerei mai di alzare le mani su una donna o di usarle violenza.

E tuttavia ho la sensazione che queste sequenze (episodi di violenza sulle donne – appelli di condanna – firma e adesione) siano insufficienti perchè non aiutano ad analizzare e ad affrontare le dinamiche e le tensioni del rapporto tra i generi, al di fuori dagli schemi precostituiti.

Non si tratta (voglio essere chiaro) di trovare attenuanti o giustificazioni a comportamenti ed azioni esecrabili e condannabili come la violenza fisica o mentale nei confronti delle donne, ma di cercare di fare chiarezza su quegli aspetti personali (di carattere psicologico o comportamentale) e sulle situazioni e condizioni di contesto nelle quali si producono malintesi, dissapori, conflitti e divisioni che non si sa come gestire e che sfociano in episodi e successivamente, in un clima ordinario di intolleranza e di violenza.

Questo processo di sincera autoanalisi, al di là dei classici stereotipi di genere, dovrebbe essere condotto da ogni uomo e da ogni donna in modo da individuare ed elencare, a partire dalla propria esperienza personale, le parole, i comportamenti, gli atteggiamenti dell’altro/a che suscitano reazioni e sentimenti ostili, di avversione, di contrapposizione e finanche di odio espressi od inespressi, che rappresentano la premesse ed il brodo di coltura della violenza verbale o fisica.

Per cercare di approfondire il tema ho acquistato il libro di Michela Murgia, “Stai zitta ed altre nove frasi che non vogliamo sentire più” e vorrei esprimere alcune impressioni ricavate dalla sua lettura.

Il primo capitolo, che dà il titolo a tutto il libro, stigmatizza la violenza verbale dei maschi nei confronti delle donne. Ora non v’è dubbio che spesso ciò si verifica, ma non può essere, almeno talvolta, che si tratti della reazione nervosa e sgarbata ad una interlocuzione esasperante? Possibile che il torto sia sempre tutto da una sola parte?

Nel secondo capitolo si prende in esame lo squilibrio ed il dislivello numerico che esiste, a svantaggio delle donne, nell’accesso a posizioni di rilievo e di prestigio nelle professioni. Questo è certamente vero ma, mi pare, si sono fatti anche significativi (anche se ancora insufficienti) passi avanti negli ultimi anni, grazie anche a norme e quote rosa: magari sarebbe il caso di riconoscerlo, proprio per stimolare a procede in questa direzione.

Nel terzo capitolo Murgia (attenzione a non chiamarla la Murgia) prende di mira proprio l’abitudine di chiamare le donne non per cognome o con il titolo che ricoprono ma per nome di battesimo (?!?) o, appunto, facendo precedere il loro cognome dall’articolo determinativo: sarebbe questo un modo per spersonalizzare o denigrare le donne. A me sembra che la scrittrice (va bene così?) dimostri una grande coda di paglia. In realtà mi sembra che quella deprecata sia soltanto un’usanza verbale del nord Italia.

Nel capitolo successivo si denuncia l’abitudine di identificare la donna con il suo status materno (se manca questo, pare che ne derivi una svalutazione), valorizzandone l’attitudine relazionale e del prendersi cura. A me questo (ma forse sono culturalmente condizionato) non pare affatto un elemento negativo o limitativo della persona.

Il capitolo quinto è dedicato al fatto che gli uomini nella donna apprezzano la dolcezza e la remissività mentre criticano e stigmatizzano ogni atteggiamento di durezza e di autorità (che invece viene apprezzato nel proprio genere).

Nel capitolo sesto si denuncia la tendenza degli uomini a mettere le donne le une contro le altre, contrapponendo quelle relazionali (preferite) a quelle razionali (scomode).

Il capitolo settimo è a mio giudizio centrale. Qui si denuncia e si condanna alla radice il sistema patriarcale e maschilista, un sistema nel quale si entra non per volontà propria ma per nascita, un sistema (qui Murgia si accorge di essersi spinta un po’ in là ma continua ugualmente nella sua tesi) dal quale non è possibile uscire se non dissociandosene, combattendolo ed opponendosi ad esso. Sembrerebbe insomma non sufficiente testimoniare con la propria vita il rifiuto della violenza e di ogni discriminazione sulla donna, e manifestare anzi un atteggiamento collaborativo ed amichevole nei suoi confronti. Tutti i maschi, come i figli di un boss mafioso, nascono con un privilegio ed hanno davanti solo due possibilità: divenire un boss essi stessi o “tradire il boss”. Cosa in concreto Murgia chieda per dare uno sbocco a questo inevitabile senso di colpa e per concretizzare questo tradimento non è molto chiaro. In cosa debba consistere questa dissociazione dal proprio vizio di genere, intrinseco fin dalla nascita nel proprio DNA di maschio, io non l’ho ben compreso (forse proprio perchè immerso nel mio innato imprinting mafioso).

Gli ultimi capitoli sono dedicati al fascino che gli uomini hanno per le “donne con le palle”, alla sottovalutazione da parte degli uomini della capacità di pensiero delle donne ed alla “cultura dello stupro” sottesa di fatto ad ogni complimento maschile, più o meno inopportuno ed inappropriato, più o meno scurrile, nei confronti dell’aspetto fisico della donna.

Per concludere direi che il libro, di facile lettura, appartiene al genere letterario del pamphlet.

Può essere utile per propiziare un esame di coscienza da parte di un uomo rispetto ai propri atteggiamenti nei confronti delle donne ma è, a mio parere, troppo unilaterale (non contenendo mai alcuna parola di autocritica) per poter favorire un confronto sereno e costruttivo tra i due generi, nel quale ci sia spazio per il riconoscimento dei rispettivi pregi e difetti e dei reciproci torti e ragioni.

Insomma non si dà possibilità di relazione costruttiva tra l’oppressore e la vittima.

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