Passante di mezzo

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Passante di mezzo

La decisione di accantonare il progetto del Passante nord e di realizzare invece il cosiddetto Passante di mezzo è ormai definitiva e Autostrade ne sta redigendo il progetto preliminare.

Una prima osservazione (certamente la meno importante) riguarda il nome: “Passante di mezzo” è quasi un ossimoro perchè il termine “passante” dà un’idea di variante, di deviazione (vedi “Passante di Mestre”) mentre quello che si realizzerà è un potenziamento/allargamento in sede, di autostrada e tangenziale. O forse “di mezzo” sta ad indicare l’alternativa tra Nord e Sud (idea di guazzalochiana memoria, ogni tanto rispolverata dal centrodestra bolognese)?

E’ stata fatta la scelta giusta? Francamente non saprei dirlo perchè il processo decisionale è stato, a mio giudizio, piuttosto confuso e poco trasparente.

Quando si deve decidere se realizzare o meno una infrastruttura importante, si dovrebbe procedere ad una valutazione comparata costi/benefici tra le diverse alternative progettuali possibili, compresa la cosiddetta opzione zero, cioè il non fare niente. Naturalmente l’analisi costi/benefici non può essere condotta soltanto in termini economici ma deve considerare anche gli aspetti ambientali e sociali, utilizzando analisi multicriteri ed attribuendo pesi differenziati ai diversi fattori in gioco. Esistono metodologie ormai largamente sperimentate per ridurre la discrezionalità delle valutazioni e tendere all’oggettività. E’ peraltro evidente che occorrerebbe confrontare soluzioni progettuali portate allo stesso livello di dettaglio, ma non mi risulta che ciò sia stato fatto.

La necessità di un intervento sul nodo di Bologna nasce dai problemi di congestione del nodo stesso. Continua…

Amoris laetitia

In questi giorni ho letto “Amoris laetitia”, l’esortazione apostolica di papa Francesco sull’amore nella famiglia, scritta a conclusione del Sinodo dei Vescovi su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo”, articolatosi attraverso un percorso di due anni e due Assemblee Generali, una straordinaria nell’ottobre 2014 ed una ordinaria nell’ottobre 2015.amoris-laetitia

A tale riguardo vorrei esprimere qualche considerazione.

In primo luogo si tratta di un documento piuttosto lungo (9 capitoli e 325 paragrafi), il che non incoraggia certo alla sua lettura. Il papa stesso ne è consapevole (par.7) e ne sconsiglia una “lettura generale affrettata” raccomandando piuttosto un approfondimento paziente “una parte dopo l’altra” anche in base all’interesse del lettore. Infatti i diversi capitoli hanno contenuti che possono interessare più i coniugi e le famiglie che gli operatori pastorali o viceversa.

Seguirò anch’io, nel mio breve commento, questo criterio e, a tale scopo, riporto integralmente il par.6 che contiene il sommario del documento.

6. Nello sviluppo del testo, comincerò (Cap.1)con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato. A partire da lì considererò (Cap.2) la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra. Poi ricorderò (Cap.3) alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia, per fare spazio così ai due capitoli centrali (Capp.4 e 5), dedicati all’amore. In seguito (Cap.6) metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio, e dedicherò un capitolo (Cap.7) all’educazione dei figli. Quindi mi soffermerò (Cap.8) su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone, e infine (Cap.9) traccerò brevi linee di spiritualità familiare.

Mi sembra che alcuni capitoli (1,2,3,6,8) riprendano sostanzialmente, anche attraverso numerosi richiami testuali, i documenti conclusivi (Relatio Synodi) delle due assemblee sinodali, mentre altri (4,5,7,9) presentino contenuti originali, anche se certamente non nuovi rispetto all’insegnamento della Chiesa.

Ciò premesso, qualche notazione specifica, tra le tante che si potrebbero fare. Continua…

Un anniversario

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Cordoba 20 aprile 2012

Di solito si ricordano (e si festeggiano) gli anniversari o le ricorrenze di eventi lieti.

Ma io voglio ugualmente ricordare oggi il quarto anniversario della malattia (un’infiammazione al midollo spinale) da cui fui colpito all’improvviso il 20 aprile di quattro anni fa, durante un viaggio in Andalusia. Un fatto che ha cambiato profondamente la mia vita e, indirettamente, la vita di chi la condivide con me.

Mi sono ormai precluse cose che fino a quattro anni orsono facevo con molta soddisfazione, come ad esempio andare in bici, giocare a basket, fare dei lunghi viaggi, delle camminate in montagna, partecipare attivamente alla vita politica e sociale….. Poi penso che quando hai vissuto intensamente certe esperienze non è il caso di replicarle all’infinito, anche perchè, come ci ricorda la sapienza del Qoelet, “c’è un tempo per…. e c’è un tempo per….”

E c’è ancora tanto che posso fare: passeggiare (certo un po’ più lentamente), nuotare , guidare l’auto, leggere, pensare, pregare e soprattutto avere tante relazioni significative, ancor più di prima perchè alleggerite dall’attivismo e dall’ansia del fare. Insomma questo è il tempo di far lavorare di più la testa ed il cuore e meno le gambe.

Dopo il referendum

Il risultato del referendum (hanno votato 32 italiani su 100 e, tra questi il SI ha fatto registrare l’85% dei consensi) conferma a mio giudizio che è stato un errore da parte dei promotori (un certo numero di Regioni) invitare i cittadini italiani ad esprimersi sull’abrogazione di una normatrivelle d’importanza marginale e che interessava solo una parte della popolazione. Niente a che vedere insomma con i referendum che mobilitarono il paese, in anni ormai lontani, su questioni di generale e vitale interesse (divorzio, aborto) o comunque (più di recente) su temi di grande rilievo (nucleare).

Si è fatto un uso strumentale del referendum, come se si votasse non sulla durata delle concessioni estrattive d’idrocarburi entro le 12 miglia marine, ma sull’intera politica energetica del paese, sui cambiamenti climatici e, alla fin fine, sul governo Renzi.

Chi sperava davvero di poter raggiungere il quorum, abrogando una legge ritenuta dannosa, deve convincersi che si sbagliava, perchè solo poco più di un quarto dei cittadini si è dichiarato d’accordo (al 32% dei votanti infatti è giusto togliere quel 5% che ha scelto il NO).

Chi si consola comunque con il 32% di chi ha rifiutato l’astensione e vede in questo una sconfitta di Renzi, dovrebbe ricordare che il fronte del SI comprendeva praticamente tutto lo schieramento parlamentare ad eccezione della maggioranza PD e di qualche centrista.

Nella sua dichiarazione a pochi minuti dalla chiusura delle urne Matteo Renzi mi è sembrato (comprensibilmente) molto teso ma impegnato a circoscrivere le polemiche, senza intestarsi la vittoria.

Assai pieno di animosità rancorosa mi è sembrato il governatore della Puglia, Michele Emiliano.

Infelice poi il tweet ad urne aperte di Ernesto Carbone, un ultrà renziano che avrebbe fatto meglio ad evitare una provocazione inopportuna

Infine io credo che sia del tutto improprio e fuorviante cercare dei nessi, di qualsiasi tipo, tra il risultato di questo referendum abrogativo, le imminenti elezioni amministrative ed il referendum confermativo di autunno sulla riforma costituzionale: si tratta infatti di consultazioni assolutamente diverse, sia nei contenuti, sia per gli effetti sul sistema politico istituzionale del nostro paese.

Il referendum del 17 aprile

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Una piattaforma in mare

Vorrei fare alcune considerazioni sul referendum che si svolgerà il prossimo 17 aprile, riprendendo in parte riflessioni che condivido, di Rudi Fallaci.

Questo referendum nasce da un’ iniziativa di 9 regioni (tra cui manca l’Emilia Romagna) contro una legge sbagliata del governo, che avrebbe consentito nuove trivellazioni in mare per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa. Grazie all’iniziativa delle regioni ed alle pressioni dei movimenti ambientalisti il governo ha fatto marcia indietro. Questa vittoria ha di fatto svuotato il pacchetto di referendum, lasciandone in piedi un piccolo brandello che a quel punto forse sarebbe stato logico e saggio ritirare.

Il quesito residuo infatti non ha niente a che vedere con nuove trivellazioni, già vietate, ma riguarda solamente la durata residua di attività di quella ventina di piattaforme di estrazione di gas (non di olio) attualmente funzionanti entro le 12 miglia: se può essere fino ad esaurimento del giacimento (come consente la legge attuale) o alla scadenza dell’ attuale concessione.

Allora, per cominciare, lo stesso slogan NO-TRIV su cui è impostata la campagna, veicola un messaggio scorretto e disinformante (sulla pagina web del Coordinamento nazionale No-triv, del quesito referendario non c’è traccia!) mentre la prima cosa che ci si aspetterebbe dal movimento ambientalista è un’informazione scientificamente corretta e non ideologica.

Sul merito. Abbiamo il dovere di ridurre progressivamente il consumo di combustibili fossili, ma dobbiamo avere chiaro che il gas, per l’Italia quasi tutto di importazione, rappresenta circa il 30% dei consumi energetici nazionali, e la parte che viene bruciata per produrre energia elettrica può certo essere rimpiazzata nel tempo dalla crescita delle rinnovabili. Ma l’altra parte rappresenta la fonte maggioritaria per il riscaldamento delle case, funzione dove non è al momento sostituibile con il solare o l’eolico o l’idroelettrico, e dove rappresenta la soluzione largamente incentivata negli ultimi decenni in quanto la meno inquinante (a parte il geotermico), meno inquinante anche delle biomasse!

Un Governo fortemente ambientalista potrebbe fare un Piano Energetico Nazionale che dimezzi l’uso del gas entro i prossimi 15, ma non potrebbe prevedere di azzerarlo.

E allora cosa significa dismettere e smantellare le piattaforme di estrazione già funzionanti, prima dell’esaurimento dei loro peraltro limitati giacimenti, se non semplicemente la sostituzione della modesta quota di produzione nazionale con corrispondenti importazioni dall’estero?

Anche l’argomento dell’inquinamento del mare causato dalle piattaforme non è sostenuto da dati significativi, né dall’esperienza di tutti questi anni, per quanto riguarda i suoi effetti su turismo, qualità delle acque, pesca e coltivazione dei mitili.

Nè è possibile trascurare l‘impatto sull’occupazione che deriverebbe da uno smantellamento delle piattaforme prima dell’esaurimento dei giacimenti.

Sembra allora che in tutto ciò manchi una vera coerenza ambientalista ed una visione globale, e che si prenda questo come pretesto per battaglie che hanno finalità politiche di altro genere, come la lotta al governo Renzi, a cui si vuole comunque mandare un segnale, utilizzando un elemento (la durata delle piattaforme) che, in realtà, è del tutto insignificante.

Aggiungo che questo referendum mi ricorda, per molti versi, quello sull‘acqua pubblica, soprattutto per il carattere marcatamente ideologico e fuorviante del suo slogan: com’ è noto infatti l’acqua è già pubblica, sia dal punto di vista della proprietà del bene che di chi detiene il potere di regolazione e di determinazione dell’affidamento della gestione del servizio e delle tariffe.

Detto questo, credo che il PD debba assumere una posizione critica rispetto al referendum (tra parentesi appare alquanto incoerente che parlamentari della sinistra PD che hanno votato la legge oggetto del referendum, ora s’impegnino per la sua abrogazione) ma che non debba invitare esplicitamente all’astensione.

Resta il fatto che, a differenza delle consultazioni elettorali politiche ed amministrative, che implicano un diritto/dovere di voto, nel caso del referendum abrogativo un cittadino non ha a mio giudizio alcun obbligo politico o morale di andare a votare su un quesito che ritenga (a torto o a ragione) sbagliato e fuorviante.

L’Ulivo e le urne, così le vittorie nel ‘96 e nel 2006.

Sul Sole24 ore di oggi, il prof.D’Alimonte ha pubblicato un lucido e documentato articolo che rievoca, numeri ed alleanze alla mano, le vittorie elettorali dell’Ulivo nel 1996 e nel 2006.ulivo

Ne consiglio la lettura, qui di seguito, a tutti ed in particolare a chi (D’Alema, Bersani e company) rievoca strumentalmente la stagione dell’Ulivo traendone arbitrariamente motivo di critica al PD attuale ed al governo Renzi.

Di questi tempi a sinistra si evoca spesso l’Ulivo contrapponendolo al Pd di Renzi. Lo ha fatto anche D’Alema in un’intervista al Corriere della sera. Nella ricostruzione dei nostalgici sembra che l’Ulivo sia una specie di epoca d’oro del centro-sinistra. Ma è una narrativa sbagliata. Il mito dell’Ulivo si regge su un’interpretazione ambigua e largamente inesatta delle vicende del centro-sinistra. Fin dall’inizio l’Ulivo è stato un progetto dai contorni indefiniti. L’unica cosa certa è che è nato per mettere insieme sotto l’egida di Romano Prodi progressisti ex-Pci e cattolici democratici ex-Dc. Non è stato concepito come un partito, ma come il nucleo centrale di una aggregazione più ampia di tutte le forze della sinistra italiana. In pratica, Prodi con il suo Ulivo doveva svolgere a sinistra la funzione svolta a destra da Berlusconi. Entrambi sono stati dei federatori. Uno con un suo partito personale. L’altro si è affidato a un’idea. Non è mai stato chiaro se l’idea dovesse diventare un partito. L’idea però ha svolto una funzione importante. Senza l’Ulivo l’Italia non sarebbe entrata nell’Unione economica e monetaria. E senza l’Ulivo oggi non ci sarebbe il Pd. Ma quella idea, frutto di una intuizione felice, non è mai riuscita a generare un consenso maggioritario.

L’Ulivo ha vinto due volte le elezioni. Mai da solo. E sempre “per caso”. La prima volta nel 1996. Allora la coalizione di centro-sinistra comprendeva anche Rifondazione comunista. L’accordo tra il partito di Cossutta e l’Ulivo non era politico ma solo elettorale. Li legava un patto di desistenza. Quel centro-sinistra prese il 44,9% dei voti maggioritari alla Camera. Tutto il centrodestra ne raccolse il 51,3%. Nell’arena proporzionale il distacco era ancora maggiore. Prodi vinse perché i suoi rivali erano divisi. Quelle furono le elezioni in cui la Lega Nord di Bossi si era separata da Forza Italia e correva da sola. Questa è la ragione principale della vittoria dell’Ulivo. Ma non la sola. Infatti Prodi non avrebbe vinto quelle elezioni senza l’aiuto di Pino Rauti. I candidati del Movimento sociale Fiamma tricolore non ottennero alcun seggio ma ne fecero perdere molti al Polo delle libertà di Berlusconi. È così che Prodi conquistò la maggioranza assoluta dei seggi e fece il suo primo governo.

Cosa è successo dopo è cosa nota. Nell’ottobre del 1998 l’esperienza del governo dell’ Ulivo era già finita. Il centro-sinistra non resse alla prova del governo. La distanza tra le forze dell’Ulivo e Rifondazione comunista era tale che nemmeno quell’abilissimo mediatore che era Prodi riuscì a tenere insieme la coalizione che gli aveva fatto vincere le elezioni del 1996. Mastella fu il Verdini di turno che, passando da destra a sinistra con la benedizione di Cossiga, permise a D’Alema prima e ad Amato poi di governare senza Bertinotti fino alle elezioni del 2001 stravinte da Berlusconi.

Nel 2006 vinse di nuovo Prodi. Ma fu un’altra vittoria per caso. L’Ulivo c’era anche allora. Questa volta dentro all’Unione. Una coalizione acchiappatutti, composta da 14 liste alla Camera e 20 al Senato. L’Ulivo ne era solo una componente. Per di più una componente unita alla Camera e divisa al Senato dove Ds e Margherita presentarono proprie liste contro il parere di Prodi e la logica elettorale. L’Unione vinse alla Camera per 25mila voti, ma perse al Senato. A Palazzo Madama la coalizione di Prodi prese meno voti e meno seggi di quella di Berlusconi in Italia. È grazie a Tremaglia e agli errori fatti dalla Casa delle libertà nella presentazione delle liste nella circoscrizione estero che Prodi riuscì ad avere un seggio in più di Berlusconi. Un caso fortunato che gli consentì di formare il suo secondo governo con ben 12 partiti al suo interno. Fu un governo precario come il primo e meno fortunato. Non bastò l’espediente di un programma elettorale di un centinaio di pagine per tenere unita una coalizione profondamente divisa. Una coalizione assemblata per vincere, ma incapace di governare. Il Pd è nato dalle ceneri di quella esperienza fallita. E con il Pd l’idea di un partito a vocazione maggioritaria.

Anche la coalizione di centrosinistra che si è presentata alle elezioni del 2013 si richiamava alla esperienza dell’Ulivo. Ma non le è servito per vincere. Anzi, quelle elezioni sono state una prova ulteriore della incapacità della sinistra italiana di allargare la sua base di consensi. Il Pd in versione bersaniana ha subito una grave sconfitta che ha aperto la strada a un ripensamento radicale di strategia politica. Il caso non ha aiutato Bersani come invece aveva fatto due volte con Prodi. La sconfitta del 2013 non è stata solo una sconfitta elettorale. È stato un evento politico traumatico per il popolo del centro-sinistra.

Renzi è il frutto di quel trauma. Chi lo critica utilizzando strumentalmente il mito dell’Ulivo lo fa perché quel mito serve a nascondere la debolezza elettorale e le profonde divisioni che ancora oggi caratterizzano la frastagliata e litigiosa sinistra italiana. Renzi non è interessato a ripetere l’esperienza dell’Ulivo. Cerca altre strade. In questo momento storico caratterizzato dal declino di Berlusconi milioni di elettori moderati non hanno più punti di riferimento stabili. Si è creata una finestra di opportunità. Come nel 1994. Allora Occhetto si alleò con Cossutta. Il centro-sinistra conquistò due collegi a Est del Ticino e 14 in tutto il Nord. Le cose da allora non sono cambiate. Il nostro resta un paese sostanzialmente moderato. Lo abbiamo visto anche di recente con la vicenda delle unioni civili. Per vincere il Pd deve allargarsi o affidarsi al caso. Renzi preferisce la prima strategia alla seconda. Molti dentro e fuori il Pd preferiscono la seconda. D’Alema tra questi.

In ricordo di Felicita

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Felicita con Vincenzo ed i figli Ciro e Salvatore al compleanno di Ciro, in ottobre 2011

Ieri, 8 marzo, festa della donna, il giorno successivo al suo onomastico, ci ha lasciato Felicita, giovane donna di 27 anni, madre di tre figli, Ciro, Salvatore ed Immacolata, avuti dal suo compagno Vincenzo.

Felicita era di Napoli e là, dove era andata a passare le vacanze di Natale, è morta, dopo un ricovero di oltre due mesi all’ospedale Cotugno, colpita da un’infezione cerebrale che ha avuto ragione del suo fisico, indebolito dal virus della immunodeficienza umana e provato da una vita dura.

Noi l’avevamo conosciuta circa 7 anni orsono, quando era venuta ad abitare in un alloggio Acer di via Andreini, dopo il suo arrivo a Bologna da Napoli ed il trasferimento dal quartiere Navile.

In tutti questi anni abbiamo cercato di essere vicini a lei ed alla sua famiglia, di sostenerla, non solo economicamente, con i nostri amici e con la Caritas parrocchiale (Vincenzo era ancora alla ricerca di un lavoro stabile e lei stessa non poteva lavorare, tenuto conto del pesante carico famigliare). Abbiamo tentato anche di essere per lei un punto di riferimento, quasi come dei genitori un po’ anziani (era assai più giovane delle nostre figlie).

Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore i suoi figli, per i quali aveva una cura ed un amore grande: i due “scugnizzetti” Ciro e Salvatore, che frequantavano ormai le scuole elementari ed il catechismo in parrocchia, dopo essere stati alla scuola materna insieme alle nostre nipoti, e la piccola Imma che avrebbe dovuto cominciare a frequentare la stessa scuola dal prossimo settembre.

Provo una grande tristezza pensando alla breve vita di Felicita che di felicità ne ha conosciuta davvero troppo poca, unita all’amarezza ed al rimpianto per non essere riusciti a fare sì che le sorti di una famiglia nata tra grandi difficoltà potessero via via migliorare fino ad una piena e completa emancipazione. Purtroppo non è stato così ed il peso di questo fallimento, che oggi grava soprattutto su Vincenzo e sui suoi figli, lo sentiamo anche su di noi.

Primarie tra maturità e lealtà

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Paola Ziccone e Federico Martelloni

Qualche considerazione sullo strumento delle primarie, alla luce di quanto si è letto in questi giorni a proposito di alcune esperienze nazionali e locali.

Le primarie per la scelta del candidato di un partito o di una coalizione possono essere uno strumento democratico ed efficace, ma ad alcune condizioni che, in estrema sintesi, individuerei nella maturità di chi le organizza e nella lealtà dei candidati.

Anche come PD abbiamo ormai alle spalle molte esperienze, alcune negative (regionali in Liguria) ed alcune positive (comunali a Milano, sia quelle vinte da Pisapia che quelle, recenti, vinte da Sala).

Ma veniamo ad episodi più recenti, che mettono tutti in evidenza, a mio parere, criticità e problemi che le primarie segnalano ed acuiscono.

1) Le primarie organizzate dalla Lega a Roma sono state in tutta evidenza una provocazione di Salvini o (se si vuole essere benevoli) un sondaggio, interpretato in modo strumentale da Salvini stesso. A Bologna non si capisce ancora bene chi sia il candidato sindaco del centrodestra e come esso verrà individuato: le primarie non basta volerle (ma poi chi le vuole davvero ?) ma occorre organizzarle, e questa diventa una prova di maturità.

2) Le primarie organizzate il weekend scorso dalla sinistra a Bologna, vinte da Federico Martelloni nei confronti di Paola Ziccone, hanno immediatamente confermato l’inguaribile propensione al frazionismo e l’incapacità di convergenza dell’arcipelago della gauche (Coalizione civica, civatiani, vendoliani di Sel , rifondazione comunista, De Pieri, Ronchi ecc.): qui la polemica, che non fa ben sperare per un appoggio di tutta la sinistra a Martelloni, si gioca sull’antagonismo tra progetto civico e partiti/movimenti, ma forse anche su contrapposizioni personali.

3) Oggi leggo che anche le primarie PD per la scelta del candidato sindaco del comune che nasce dalla fusione di Porretta Terme con Granaglione sono a rischio per sospetti e diffidenze fra i tre candidati, per cui non è improbabile che ciascuno si candidi per conto suo.

4) Restano i 5Stelle che seguono i metodi più diversi: a Bologna niente primarie, a Roma primarie online tra 6 candidati usciti dalla scrematura (fatta da chi ?) di numerosi profili (con polemiche e ricorsi da parte di alcuni esclusi).

Insomma le primarie sono un oggetto delicato, da maneggiare con grande cura ed attenzione, da mani (partiti) esperte e mature e tra protagonisti leali.

Il Pilastro compie cinquant’anni.

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Il villaggio alle origini

Quest’anno si festeggiano i cinquant’anni dalla nascita del villaggio del Pilastro. I festeggiamenti avranno inizio sabato 5 marzo.

Io non ho mai abitato al Pilastro ma mi sento particolarmente legato alla sua storia ed a quella dei suoi abitanti. Infatti, dopo essermi sposato nell’agosto del 1968, venni ad abitare nel quartiere S. Donato, dove risiedo tuttora e cominciai ad interessarmi attivamente alla vita del quartiere e dello stesso Pilastro, nato da poco.

Nel 1970 entrai a far parte del Consiglio di quartiere, dove assunsi il ruolo di presidente della Commissione servizi sociali.

Come si sa il Pilastro è nato male. Si trattava di un villaggio “dormitorio” dello IACP (oggi ACER), isolato e separato dalla città (con la barriera autostradale di mezzo), privo di servizi, a composizione sociale con netta prevalenza di immigrati dal sud o da zone svantaggiate.

Cominciai a frequentarlo, non soltanto per motivi legati al mio ruolo istituzionale.

Conservo ricordi vivissimi delle riunioni del Comitato inquilini, di Luigi Spina (al quale è intitolata la biblioteca), di Angiolino Vecchi, di Oscar De Pauli….. Era quello l’unico, fondamentale momento di aggregazione sociale, nel quale erano presenti cittadini di diverso orientamento politico, tutti animati dal desiderio “riformista” di migliorare la vita del villaggio e di risolvere i tanti problemi che si manifestavano. Già allora erano presenti gli “antagonisti”, preoccupati soltanto di strumentalizzare il disagio sociale a fini pseudorivoluzionari. E c’erano anche gruppi di giovani studenti, di matrice cattolica, che venivano al Pilastro per svolgervi attività di animazione sociale. Fu così che iniziò la mia amicizia con Amelia Frascaroli.

Ricordo bene la chiesa, ospitata per molti anni in un prefabbricato, ed i primi parroci e cappellani, don Manzoni, don Sarti……

Ricordo ancora il dr. Diego Brescia, mitico medico scolastico (e non solo), presente all’interno del primo poliambulatorio pubblico, allora ubicato al pianterreno di un fabbricato di via Trauzzi.

Nascevano proprio allora i primi poliambulatori, voluti dal comune e dall’assessore Loperfido. Si cercava di farne anche uno strumento di partecipazione e di prevenzione. C’è un breve filmato del 1974 nel quale il sottoscritto parla ad un gruppetto di cittadini all’interno del poliambulatorio, per illustrarne le finalità. Per vederlo clicca su solo-paolo

Si mise in piedi, tra l’altro, un servizio di cure ortodontiche per i bambini, a prezzo calmierato.

Ricordo ancora la nascita dell’asilo nido. A quei tempi era la Commissione servizi sociali di quartiere a gestire le graduatorie di ammissione ai nidi, un’esperienza davvero straordinaria. Alcune delle operatrici del nido Pilastro, sempre bravissime, le ho riviste trent’anni dopo nel nido Alpi in via Andreini, frequentato dalle mie nipotine.

E poi come dimenticare, in quegli anni ‘70, la nascita della piscina Record, un evento davvero importante, per il villaggio e per tutto il quartiere. Pensate che riuscimmo ad ottenere la possibilità per le scuole elementari di S.Donato, di fare dei corsi di nuoto gratuiti durante l’orario scolastico.

Se penso al Pilastro di quell’epoca rivedo i volti di tanti amici e compagni con i quali abbiamo condiviso esperienze politiche e sociali: Roberto Laffi, Tommaso Raimondi, Antonio Casillo, Gabriele Grandi e tanti altri che non nomino per timore di dimenticare qualcuno.

Da allora ad oggi il Pilastro è cambiato moltissimo, da tanti punti di vista: a cinquant’anni è un soggetto nel pieno della sua maturità, con tanti punti di forza e con qualche criticità, come del resto le nostre periferie. Di capitale sociale e di impegno politico e amministrativo ne è stato profuso molto in tutti questi anni, ed i frutti non sono mancati.

Democrazia parlamentare

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L'aula del Parlamento

La discussione in Parlamento del disegno di legge sulle unioni civili ha riportato d’attualità l’art.67 della Costituzione («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») contro il quale si è duramente pronunciato Beppe Grillo.

Questo articolo della Costituzione fu scritto e concepito per garantire la libertà di espressione più assoluta ai membri del Parlamento italiano. In altre parole, per garantire la democrazia i costituenti ritennero opportuno che ogni singolo parlamentare non fosse vincolato da alcun mandato né verso il partito cui apparteneva quando si era candidato, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori che, votandolo, gli avevano permesso di essere eletto a una delle due Camere. Il vincolo che lo lega agli elettori assume la natura di responsabilità politica.

Come è ovvio, tra l’art.67 della Costituzione e la disciplina di partito occorre trovare un’equilibrio.

Il consentire in alcuni circoscritti e limitati casi (in particolare quando sono in gioco temi etici) la libertà di voto (più che la libertà di coscienza, che non è nella disponibilità di un partito) è un modo per assicurare tale equilibrio.

E’ peraltro evidente che se un parlamentare vota ricorrentemente in difformità dalle indicazioni del partito nella cui lista è stato eletto, si pone, da un lato, la possibilità, da parte del partito stesso, di applicare delle sanzioni (fino alla espulsione dal partito e conseguentemente dal gruppo parlamentare ma non, ovviamente, dal Parlamento), dall’altro la facoltà del parlamentare (per ragioni di coerenza politica) di abbandonare partito e gruppo parlamentare.

L’importante è che tutto ciò avvenga in modo trasparente e alla luce del sole. In tal senso credo che il voto segreto (altro strumento di tutela della libertà del parlamentare rispetto al suo partito) debba essere limitato a casi assolutamente eccezionali.

Il parlamentare insomma,già tutelato dall’art.67 della Costituzione, deve poi assumersi fino in fondo le proprie responsabilità, consentendo agli elettori di conoscere i suoi comportamenti e le sue scelte, in modo da poterne tenere conto alle elezioni successive.

Questo a sua volta esige che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere, attraverso le preferenze e/o primarie previste per legge, chi mandare in parlamento.

Per concludere non v’è dubbio che la ricerca di un equilibrio tra libertà degli eletti, prerogative degli elettori e ruolo dei partiti sia difficile.

Ciò che a mio avviso non può stare insieme è la libertà di voto (fuori dalla disciplina di partito) ed il voto segreto che produce opacità ed un clima di sospetto che nuoce gravemente alla democrazia.