Ieri su La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, sono stati pubblicati, come di consueto, i dati delle vendite dei libri nella settimana precedente.
Ciò che mi ha colpito non è soltanto il fatto che il libro del generale Vannacci “Il mondo al contrario” è ancora, dopo diverse settimane, il libro più venduto, ma che è ancora stabile nelle vendite e, soprattutto, ha venduto quasi il doppio di tutti gli altri 9 volumi della top ten messi insieme, testi di saggistica e narrativa italiana e straniera.
Ciò che sconcerta è che questo successo strepitoso non è dovuto a recensioni positive sulla qualità letteraria del libro ma soltanto alle polemiche suscitate dai suoi contenuti ed alle relative ricadute mediatiche (articoli, interviste ecc.).
Non saprei dire se siano di più coloro che hanno acquistato il libro per trovarvi conferma delle proprie opinioni, per curiosità o per trovare conferma alla propria indignazione.
Quello che so per certo è che non comprerò il libro: mi bastano le anticipazioni che sono state pubblicate per dire che non condivido in alcun modo il Vannacci-pensiero.
Vannacci ed il suo libro
Una cara amica mi chiede di ospitare su questo blog (ormai, credo, per pochi intimi) alcune sue riflessioni sulle affermazioni del generale Vannacci.
Lo faccio con piacere, anche perché le condivido pienamente.
Sono consapevole che sull’argomento si sta parlando fin troppo e forse parlando gli si dà troppa importanza, ma di fronte a certe cose non è possibile tacere.
Premetto che non ho letto il libro e probabilmente non lo leggerò. Premetto anche che non voglio entrare nel merito del dritto o meno di esprimere le proprie idee per chi riveste incarichi di responsabilità e che volutamente mi astengo dal commentare tutte le affermazioni riguardanti gli omosessuali, le femministe, ecc… sulle quali pure ci sarebbe tanto da dire.
Intendo solo riflettere su una delle affermazioni di Vannacci:
“… i tratti somatici della Egonu non rappresentano l’italianità”.
Mi viene spontaneo chiedere se forse mettendoci davanti ad una fotografia dello stesso Vannacci, ovviamente in abiti borghesi, sapremmo dire se l’uomo sia italiano piuttosto che francese o russo o statunitense? I tratti somatici saprebbero dirlo?
Che cosa vuol dire per il generale Vannacci rappresentare l’italianità?
Io mi sento italiana perché sono nata e soprattutto cresciuta in questo Paese, perché parlo la lingua di Dante, perché considero casa mia questa Terra meravigliosa e ricca di bellezze naturali e di opere d’arte, perché ne amo la musica, il cibo,…. perché sento in me radicata la cultura italiana e condivido i valori della migliore Costituzione al mondo, per la quale molti dei nostri padri hanno versato il sangue, affinché anche un Vannacci potesse esprimere liberamente le proprie idee, perché questa è democrazia.
Allora sorge spontanea la domanda su cosa abbia a che fare tutto questo con il colore della pelle, con i tratti somatici!
Una affermazione del genere rappresenta, secondo me, un insulto:
a tutti i cittadini italiani nati da un italiano e da un genitore di un altro Paese, del quale ovviamente portano una ricchezza culturale oltre ad alcuni (più o meno marcati) tratti somatici;
a tutti i nostri figli adottivi italiani, che abbiamo generato, non nella carne ma nel cuore, e che appartengono in tutto alla nostra cultura e in tutto ci somigliano, nonostante i tratti somatici;
ai figli e nipoti di migranti di seconda e terza generazione, i cui genitori o nonni hanno scelto di vivere in questo Paese, contribuendo col proprio lavoro a costruire il futuro per tutti.
Certo, perché come disse il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, parlando di migrazioni e facendo riferimento al nostro passato, quando era l’America la meta dei nostri migranti:
“Oggi, per loro, noi siamo l’America: e noi, come l’America abbiamo bisogno di immigrati per crescere ” (Carlo Azeglio Ciampi, Bologna, 2 febbraio 2000).
Allora mi vorrei rivolgere al generale Vannacci, che tiene tanto all’italianità che ha orgogliosamente rappresentato nelle sue missioni di pace all’estero, dicendo:
“Caro generale,
anch’io tengo all’italianità fatta di valori, di cultura, di ricchezza di un patrimonio artistico, storico e naturale; anch’io voglio preservare e valorizzare questo prezioso patrimonio. E voglio preservarlo e valorizzarlo per consegnarlo agli italiani futuri QUALSIASI SIA IL COLORE DELLA LORO PELLE.
Francesca Netto Censoni
L'arcivescovo Matteo Zuppi
Il legame che si crea tra una comunità parrocchiale ed il presbitero che svolge in essa il ministero di parroco è sempre un legame assai stretto, che si consolida con il passare degli anni e che presenta risvolti umani e spirituali importanti.
Il trasferimento del prete ad altra/e parrocchia/e spezza questo legame e rappresenta un momento delicato e spesso non privo di conseguenze sia per la persona del prete sia per i singoli parrocchiani e per la comunità nel suo insieme. Lo dico sulla base di esperienze che ho vissuto direttamente o di cui sono stato reso partecipe da amici e conoscenti.
Col passare del tempo di solito le situazioni si riassestano: la comunità parrocchiale ed il nuovo parroco trovano un loro equilibrio pastorale, anche grazie alla eventuale presenza dei ministri istituiti che rappresentano un elemento di continuità e di memoria storica della tradizione di una parrocchia di cui il nuovo parroco, se è saggio, non potrà non tenere conto, soprattutto all’inizio del suo nuovo ministero. Una parrocchia infatti, con il passare degli anni, matura una propria identità a cui hanno concorso i presbiteri che si sono succeduti ma che è di fatto alimentata e custodita dai fedeli laici.
Ma non è sulle diverse reazioni positive o negative, di soddisfazione o di disagio che possono toccare le singole persone in occasione del trasferimento di un parroco che intendo soffermarmi, ma sulle modalità con cui questo trasferimento di norma avviene.
Da quanto mi risulta tali modalità da sempre consistono in un colloquio tra vescovo e presbitero interessato, nel quale viene comunicata la nuova destinazione ed in una comunicazione che il parroco uscente fa alla sua comunità.
Mi sono sempre chiesto (senza avere una risposta) Continua…
- Il PAESC.
Nell’aprile del 2021, cioè oltre due anni orsono, il Consiglio comunale di Bologna approvò il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile e il Clima (PAESC), un importante strumento di programmazione che ha lo scopo di rendere la città più adattabile ai cambiamenti climatici e climaticamente sostenibile.
L’obiettivo del Piano è la definizione delle azioni necessarie per raggiungere la decarbonizzazione nel 2040 – traguardo che l’Unione europea pone oggi al 2050 – ma si prefigge anche un proposito di medio termine.
Le azioni del PAESC arrivano a considerare uno scenario al 2030 che, attraverso le tecnologie già oggi disponibili, consente di arrivare ad una riduzione delle emissioni di CO2 del 44%, pari a oltre 500 mila tonnellate di anidride carbonica ogni anno.
I protagonisti di questa transizione saranno il Comune, gli altri enti pubblici e gestori di pubblici servizi, il mondo produttivo e i singoli cittadini; sarà infatti anche l’azione dei singoli che permetterà alla città di rinnovarsi. Bologna dovrà diventare una città resiliente, solare e a basso consumo, attraverso interventi in tutti i settori (trasporti, patrimonio edilizio pubblico e privato, spazi aperti, infrastrutture verdi e blu).
La sola realizzazione della linea tranviaria elettrica che attraverserà la città sarà in grado di ridurre le emissioni di oltre 50 mila tonnellate di C02 ogni anno.
In questa città elettrica verranno gradualmente eliminati i carburanti a base di carbonio tramite mezzi alimentati da energia rinnovabile, con l’uso di biogas derivato dai rifiuti organici (che già oggi alimenta molti autobus), con idrogeno verde, ossia prodotto dall’acqua a partire da energie pulite, e con i combustibili prodotti dai sistemi di immagazzinamento che convertono i surplus delle energie rinnovabili in gas (power-to-gas).
I macro-ambiti di intervento del PAESC sono:
a) ondate di calore in ambito urbano, da mitigare mediante interventi mirati all’incremento della fitomassa (alberi), controllo della radiazione solare e di riduzione della vulnerabilità della popolazione mediante sistemi di allerta, di informazione e partecipazione attiva.
b) eventi estremi di pioggia e dissesto idrogeologico, per migliorare la risposta idrologica della città e il drenaggio urbano, anche mediante interventi strutturali, di depavimentazione/desigillazione ecc.
c) carenza e qualità della risorsa idrica, mediante azioni di rinnovo delle reti, riduzione degli sprechi e razionalizzazione dei consumi idrici.
d) rigenerazione degli edifici civili e della relativa dotazione impiantistica, per la riqualificazione energetica profonda degli edifici e la creazione di zone ad energia zero o energia positiva, mediante un set di azioni coordinate di regolamentazione di diffusione delle competenze ecc.
e) produzione di energia da fonti rinnovabili, per aumentare la potenza installata di impianti fotovoltaici anche mediante la promozione dell’autoconsumo collettivo e delle comunità energetiche.
f) decarbonizzazione dei trasporti e mobilità sostenibile, mediante l’elettrificazione e la diversione modale dei trasporti verso il trasporto pubblico e la mobilità ciclabile.
g) edifici comunali e illuminazione pubblica, per la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e dei sistemi di illuminazione stradale.
h) transizione energetica nel settore industriale, per il contenimento degli usi finali elettrici ed il sostegno verso progetti di innovazione tecnologica ed il ricorso ai vettori di energia rinnovabili (idrogeno, power to gas e biogas).
Sono infine state individuate sei azioni chiave, ovvero misure di significative che affrontano gli aspetti di mitigazione e adattamento, avviate o già realizzate sul territorio comunale:
1) riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica
2) progetto GECO “Green Energy Community” in zona Roveri
3) linea rossa del tram
4) programmazione di aumento del verde e delle alberature
5) interventi di riduzione del rischio idraulico e idrogeologico e di manutenzione dei rii collinari e del canale Navile
6) recupero delle acque dell’impianto IDAR (impianto di trattamenti dei fanghi industriali di via Shakespeare) nell’ambito dell’accordo di programma regionale. Continua…
Alluvione in Emilia Romagna
A proposito dei tragici disastri che hanno colpito l’Emilia Romagna in questi giorni sono andato a ripescare ciò che avevo scritto 9 anni orsono, nel 2014 e che mantiene la sua validità.
Lo trascrivo nel seguito:
Ogni volta che nel nostro paese muoiono delle persone a causa di eventi cosiddetti “naturali” (una frana, un’alluvione…..), il che purtroppo accade abbastanza di frequente, si sente ripetere la solita litania: “ci vuole più prevenzione”, “costerebbe meno spendere in prevenzione che riparare i danni, oltre al dramma delle vittime” ecc. ecc. Anche il ministro dell’ambiente Galletti, qualche giorno fa, dopo i morti a causa della piena di un torrente nel trevigiano, non ha saputo andare oltre queste ormai scontate affermazioni, alle quali per la verità ha aggiunto l’impegno del governo a spendere un po’ di risorse già previste per interventi di difesa del suolo ma fin qui bloccate per i vincoli del patto di stabilità.
Credo che un governo come quello di Matteo Renzi debba andare oltre , provando a mettere nella sua agenda anche la riforma di questa materia (la difesa e la sicurezza del suolo e del territorio).
Non credo che si tratti d’inventare granchè di nuovo. Basterebbe prendere sul serio e, finalmente realizzare, quanto a suo tempo previsto in due documenti un po’ datati ma che mantengono intatta, a mio avviso, la loro validità.
Il primo è la ponderosa relazione della Commissione De Marchi, Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, pensata a valle della disastrosa alluvione del Polesine (1951), istituita nel 1967, dopo i fatti drammatici del novembre 1966 (tra cui l’alluvione di Firenze): la relazione, pubblicata nel 1970, era il frutto di un’ ampia indagine generale del territorio nazionale e, in sintesi, proponeva, proprio per dare corpo al tema della prevenzione, un complesso d’interventi di difesa del suolo (per le diverse categorie di opere) da articolarsi nell’arco di un trentennio, con una intensificazione nei primi cinque anni ed una successiva maggiore diluizione nei successivi 10 e 15 anni. L’importo totale delle opere ammontava a poco meno di 9.000 miliardi di vecchie lire e la raccomandazione principale, completamente disattesa da tutti i governi che si sono succeduti fino ad oggi, era quella di dare continuità all’attuazione del programma.
Il secondo è la legge n.183/1989 (“Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo”), che compie pertanto 25 anni e che prevede soprattutto la necessità che le politiche di difesa del suolo vengano declinate ed attuate tenendo conto della dimensione del bacino idrografico, dando vita, a seconda del rango dei corsi d’acqua interessati, alle Autorità di bacino di livello nazionale, interregionale o regionale.
Vorrei ora provare, sulla base di un’esperienza professionale ormai datata ma, spero, ancora utile, ad esprimere qualche considerazione per chiarire l’articolazione complessa delle problematiche della difesa del suolo, che sembra essere ormai dimenticata e trascurata.
Innazitutto occorre tenere presente che esiste una responsabilità primaria dei privati proprietari dei terreni, sia in montagna che in pianura. A proposito del tragico evento di esondazione del torrente Lierza in provincia di Treviso, costato la morte a quattro persone, si è letto di una possibile concausa attribuita alla proliferazione dei vigneti che avrebbero contribuito ad aggravare gli effetti di una pioggia particolarmente intensa. Io non so se questo possa essere vero, nel caso specifico.
So peraltro che praticamente tutto il territorio collinare e montano del paese è sottoposto a vincolo idrogeologico e che chiunque intenda effettuare movimenti di terreno sulla propria proprietà, deve chiedere un’autorizzazione che viene rilasciata sotto il controllo del C.F.S. (Corpo Forestale dello Stato), il quale, se del caso, impone le necessarie prescrizioni sulla base delle cosiddette Prescrizioni di Massima e di Polizia Forestale, un insieme di norme tecniche finalizzate a garantire la stabilità dei terreni e delle pendici, norme che, ad esempio, vietano determinate modalità di lavorazione dei suoli agricoli in montagna ed impongono precisi criteri di regimazione delle acque a carico dei proprietari. Come spesso accade nel nostro paese, non sono le norme che mancano ma piuttosto gli strumenti e la volontà di applicarle. E’ per questo motivo, ad esempio, che a mio avviso il C.F.S. andrebbe assolutamente potenziato in quanto custode dell’assetto dei terreni collinari e montani e delle zone boscate,ed essendo dotato di adeguata professionalità e dei poteri di polizia giudiziaria.
Un altro organismo tecnico che potrebbe contribuire ad un’ efficace politica preventiva in materia di difesa del suolo sono i Consorzi di bonifica. Si tratta di enti che riuniscono i proprietari dei terreni di una certa zona o bacino idrografico o (in pianura) scolante. Il loro compito è quello di eseguire, in montagna, la manutenzione delle opere idraulico-forestali di competenza dei privati, e, in pianura, la costruzione e la gestione degl’impianti d’irrigazione e di scolo che da un lato sono a servizio delle attività agricole e, dall’altro, evitano che i terreni depressi vengano invasi dalle acque di pioggia. Naturalmente mantenere in vita i Consorzi di Bonifica ha un costo, a carico dei proprietari dei terreni e se in pianura, grazie al reddito dell’attività agricola ed al valore dei terreni, questo risulta economicamente sostenibile, in montagna, per le medesime ragioni, ma in senso opposto, l’attività dei Consorzi è più limitata e meno efficace ed andrebbe sostenuta con contributi pubblici.
Ancora sia in montagna che in pianura si tratta di limitare al massimo l’impermeabilizzazione del territorio, onde evitare la diminuzione dei tempi di corrivazione ed il rischio di piena dei corsi d’acqua. In pianura, se del caso, a fronte di una impermeabilizzazione inevitabile si tratta di prescrivere e d’imporre la realizzazione di vasche di laminazione degli afflussi di pioggia.
Fin qui, sia pure sommariamente, gli obblighi e gl’impegni dei privati.
Ma in materia di difesa del suolo c’è, ovviamente, un imprescindibile ruolo del pubblico.
Intanto gli enti proprietari e gestori d’infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie) per garantire la sicurezza delle medesime sono tenuti, soprattutto in montagna, a monitorare la stabilità dei versanti ed eventualmente ad intervenire a proprie spese con le necessarie opere di consolidamento.
Sempre nel territorio montano, in presenza di grossi movimenti franosi la cui stabilizzazione comporta spese insostenibili da parte dei privati, è indispensabile intervenire con fondi pubblici, regionali o statali.
Da ultimo c’è poi il grande tema degli alvei e delle opere idrauliche. I corsi d’acqua scorrono tutti in terreno demaniale e sono pertanto di competenza pubblica (regionale o statale a seconda della loro classificazione). Qui si pone pertanto un altro impegnativo ed oneroso capitolo della difesa del suolo, vale a dire quello della prevenzione delle erosioni alveali (con conseguente crollo di ponti e manufatti), del cedimento o sormonto di argini (con relativi allagamenti ed inondazioni).
Ancora una volta questi fenomeni possono essere causati da un cattivo ed improvvido uso del territorio (insostenibile cementificazione) o da dissennati interventi come il tombamento di torrenti o le costruzioni in zona golenale, il che rinvia a responsabilità politico-amministrative (assenza di pianificazione urbanistica o di controllo edilizio). Ma, detto ciò, compete alle autorità idrauliche (regionali o nazionali) dotarsi di strumenti di previsione delle piene ed intervenire con le necessarie opere idrauliche di difesa e di manutenzione dei corsi d’acqua.
Tutto questo ha un costo non indifferente che va posto a carico della fiscalità generale. E qui torniamo alle conclusioni della Commissione De Marchi, disattese da una politica imprevidente.
Io credo, riprendendo quanto dicevo all’inizio, che il governo Renzi renderebbe un immenso servizio al paese ed acquisirebbe grandi meriti, se in materia di dissesto idrogeologico e di sicurezza del territorio, invece di balbettare come tutti i governi che l’anno preceduto, invocando giustificazioni come i cambiamenti climatici (bombe d’acqua ecc.) che ci sono per davvero ma che rappresentano al massimo un’ attenuante delle responsabilità pubbliche, sapesse pronunciare una coraggiosa parola di consapevolezza e di verità, assumendo di fronte al paese l’impegno ad intraprendere, nonostante le difficoltà della spesa pubblica, una decisa inversione di marcia , rivisitando ed aggiornando, ad esempio, la metodologia utilizzata dalla Commissione De Marchi, mettendo a punto un programma pluriennale d’intervento, sulla base di una scala di priorità e verificando la validità e l’attualità dell’impianto della legge 183, ridefinendo eventualmente con chiarezza il quadro delle competenze istituzionali in materia. Infatti una delle ragioni che spesso bloccano o ritardano gl’interventi in materia di difesa del suolo, oltre alla mancanza di risorse, è l’incertezza su chi debba intervenire, la confusione e lo “scaricabarile” delle competenze, tanto che non è esagerato affermare che il dissesto del territorio è anche il frutto di una sorta di “dissesto istituzionale” che affligge il nostro paese.
Pochi mesi dopo il governo Renzi istituì l’unità di missione Italia Sicura. Ecco ciò che scrissi a commento:
E’ ancora presto per affermare che il governo Renzi ha cambiato passo. Voglio comunque sperare che l’istituzione della Struttura di Missione “Italia Sicura” presso la presidenza del Consiglio rappresenti il segno di una presa di coscienza della priorità che la lotta contro il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro paese.
Naturalmente il governo Conte1 si affrettò a cancellare la struttura di missione “Italia sicura”………..
Matteo Lepore
Il sindaco Matteo Lepore, fin dall’inizio del suo mandato, ha preso una buona abitudine: ogni mese, per una settimana, si trasferisce con la Giunta in uno dei 6 quartieri, visita luoghi e realtà del territorio, partecipa ad alcuni eventi significativi, incontra cittadini ed associazioni a cui offre la disponibilità ad incontri su prenotazione con sindaco ed assessori. Di recente ne ho fatto esperienza diretta e giudico positivamente questa efficace modalità di relazione che avvicina istituzioni ed amministratori ai cittadini.
Carlo Calenda e Matteo Renzi
A fronte di una deriva del PD verso posizioni di sinistra radicale, in particolare riguardo al tema dei diritti individuali, e di un suo avvicinamento al populismo dei 5Stelle, confermato dalla conquista della segreteria da parte di Elly Schlein, guardavo da qualche tempo con interesse ed attenzione al cosiddetto Terzo Polo: in particolare apprezzavo in larga misura le posizioni politiche di Calenda e l’intuito di Matteo Renzi, anche se non mi sfuggivano le difficoltà di una collaborazione tra due personalità forti e spiccatamente egocentriche. Tuttavia la prospettiva di una unificazione tra Azione ed Italia Viva in un unico partito moderato e riformista, ispirato alle culture liberaldemocratica e popolare, collocato nel campo del centrosinistra mi sembrava interessante, anche nella prospettiva delle elezioni europee del prossimo anno.
Grande è stata la delusione per le vicende di questi giorni, con lo scambio di accuse e d’insulti tra i dirigenti delle due formazioni politiche, a partire dagli stessi Renzi e Calenda. Ricevendo entrambe le loro newsletters ho avuto modo di leggere le rispettive “ragioni” e motivazioni della rottura.
Non ho alcuna intenzione di prendere parte per l’uno o per l’altro o di distribuire torti e ragioni.
Quello che è certo è che ciò che è accaduto segna a mio giudizio il declino politico sia di Calenda che di Renzi: fare buona politica non significa soltanto elaborare riflessioni e progetti efficaci di governo e di trasformazione positiva della società, ma anche avere la “sapienza” personale per realizzare le mediazioni ed i compromessi necessari per raccogliere attorno ad essi il necessario consenso e le opportune alleanze.
Non so se il progetto di unificazione di Azione ed Italia Viva (e magari di +Europa) sia definitivamente fallito. Penso comunque che un suo eventuale recupero non sia più affidato a Calenda e Renzi ma (perchè no?) ad una donna, certamente dotata di maggiore equilibrio e sensibilità politica: Bonetti? Carfagna? Bonino?
Dopo Meloni e Schlein forse questo è il loro momento.
Su Repubblica del 5 aprile scorso è comparso un articolo a firma di Tito Boeri e di Roberto Perotti intitolato “Cinque errori sul Pnrr”. In esso gli autori criticano alla radice il Piano, i cui soldi, in larga misura presi a prestito e non erogati a fondo perduto, “non sappiamo come spenderli e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi”.
Le critiche sono articolate in 5 punti.
Il Pnrr è nato nel modo sbagliato. “Si è voluto portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli”. “Nessun Paese, tanto meno l’Italia, è in grado di spendere così tanto in così poco tempo”.
Si è fatto troppo poco per migliorare la nostra capacità di spesa. Procedure di aggiudicazione dei lavori lente e farraginose. Ritardi nell’assunzione di tecnici e funzionari nella pubblica amministrazione. Il governo Meloni ha cambiato la governance del Piano.
Le priorità sbagliate. “Una lista della spesa infinita con decine di proposte strampalate, perchè “tanto ci sono i soldi del Pnrr”. “Pochi miliardi per le periferie e la qualità della vita”.
La fretta. “E’ molto più facile spendere soldi in fretta su mega impianti già esistenti.” “A RFI che normalmente spendeva 2 miliardi all’anno per investimenti è stato chiesto di triplicare la spesa”.
La trasparenza, il monitoraggio e il controllo della società civile. “Con fondi così ingenti è quasi impossibile controllare cosa fa il governo.” “Nessun paese, neanche i meglio amministrati, potrebbe gestire utilmente ed efficientemente un tale fiume di denaro in così poco tempo”. ”Non ha senso prendere a prestito per spendere in progetti con scarso valore per la società”.
Commento.
Difficile criticare più aspramente di così un piano di tale importanza. Da segnalare che la critica viene da due tecnici non certo di destra ed è pubblicata da un giornale che certo non simpatizza per la Lega. Eppure la conclusione dell’articolo è sostanzialmente in sintonia con le uscite più recenti di esponenti della Lega che proponevano di restituire all’Europa buona parte dei fondi che non si riuscirà a spendere entro il 2026. Mi sarei aspettato sui giornali di oggi una serie di reazioni che invece non ci sono state. Vedremo.
Bioetica
La bioetica è quella parte della filosofia o della teologia morale che riguarda i diversi momenti della vita umana, in particolare della vita al suo inizio ed al suo termine. Naturalmente gli approcci di carattere culturale e di ispirazione politica ai temi della bioetica possono essere assai diversi tra loro, così come diverse possono essere le soluzioni normative che a tali temi dà (o, più spesso ahimè, non dà) la legislazione del nostro paese. Per fare alcuni esempi: abbiamo una legge (194/78) che regolamenta l’aborto (o Interruzione Volontaria della Gravidanza), una legge (40/2004) che regola la fecondazione assistita, una legge (219/2017) che consente il testamento biologico (o Dichiarazioni Anticipate di Trattamento), mentre manca a tutt’oggi una norma che autorizzi il ricorso, in determinate circostanze, al suicidio assistito, o una legge che regolamenti il riconoscimento della genitorialità delle coppie omosessuali. In entrambi questi ultimi casi è la magistratura (la Corte Costituzionale nel primo caso, la Corte di Cassazione nel secondo) ad aver formulato indirizzi e criteri che ancora non sono stati recepiti in modo organico con una legge del Parlamento.
Tutte le forze politiche, in qualche misura, scontano da questo punto di vista un colpevole ritardo per non essere riuscite ad approvare una legge, magari dopo una trattativa e le necessarie ed opportune mediazioni che sono spesso lo strumento della buona politica, come insegna la legge 194/78, una buona legge che richiede solo di essere applicata integralmente, anche nella sua parte preventiva e di sostegno alla maternità difficile.
Tenuto conto di ciò considero sbagliate le polemiche politiche sollevate di recente, soprattutto da sinistra, attorno al blocco della registrazione della genitorialità delle coppie omosessuali, tema che non può essere separato dalle modalità (tra cui la maternità surrogata) con cui è avvenuto il concepimento e la gestazione di questi bambini/e.
A questo proposito vorrei esprimere alcune considerazioni. Continua…
Ho conosciuto Elly Schlein poco meno di dieci anni orsono, per la precisione nell’autunno del 2013.
L’8 dicembre di quell’anno si svolsero le elezioni primarie per la scelta del segretario del PD, che doveva prendere il posto di Bersani.
Si recarono alle urne 2.800.000 elettori circa. Nel voto tra gli iscritti prevalse Renzi con il 45%, seguito da Cuperlo (inossidabile) con il 40%, Civati con il 9% e Pittella con il 6%.
Nel voto tra gli elettori vinse Renzi (68%) seguito da Cuperlo (18%) e Civati (14%).
Elly Schlein
Nel corso della campagna elettorale si svolsero iniziative nelle quali i sostenitori dei diversi candidati presentavano le rispettive mozioni.
Alla mitica sala Sirenella, in via Andreini 2, si svolse un affollato incontro nel corso del quale io presentai la mozione Renzi ed una giovane Elly Schlein presentò la mozione Civati.
Al termine dell’incontro scambiai con Elly qualche parola di stima ed apprezzamento reciproco.
Da qualche tempo fatico a riconoscermi nel PD. Delle diverse culture fondative di questo partito mi pare che ormai ne trovi spazio una sola, quella socialdemocratica. Con la Schlein segretaria è prevedibile che di tale cultura venga data una interpretazione ancora più radicale e massimalista.
Vedremo. Cercherò di giudicare con onestà intellettuale.